promozione di dipendenti nel posto sbagliato

La promozione è servita
(anche oggi senza competenza)

A molte persone piacciono i titoli.
Amano le targhette sulle porte, le posizioni di prestigio, la sensazione di contare qualcosa in virtù del ruolo che ricoprono.
Spendono anni — a volte l’intera carriera — per ritagliarsi uno spazio di rilievo, a qualsiasi costo.
Quando finalmente lo conquistano, lo usano dappertutto come fosse un passpartout.
Lo difendono con le unghie, come se ne andasse della loro stessa esistenza — e te lo fanno pesare come un macigno.
Se poi ti capita di dimenticartene durante una conversazione, te lo fanno notare con tono offeso, come se avessi inflitto un’onta imperdonabile.
Ma una domanda resta in sospeso. Nessuno ha il coraggio di esprimerla per paura di toccare fragili equilibri o per timore di ripercussioni:
calzano realmente il ruolo che ricoprono?
Già, perché è molto semplice fregiarsi di un titolo, ma non altrettanto onorarlo nei fatti. A volte, il mismatch tra la forma e la sostanza è talmente evidente da sfiorare il grottesco.

Potere e arroganza nel posto sbagliato

A questo proposito, mi viene in mente un aneddoto.
Anni fa ho conosciuto una persona in una posizione di spicco di un’azienda cliente.
Nello specifico, si trattava di un Responsabile Acquisti a cui fornivamo i nostri prodotti come materia prima.
All’epoca, io stavo ancora imparando molto del mondo della negoziazione (prima di capire che non mi appartenesse) e mi ricordo che, dopo aver affrontato cinque ore di strada per raggiungerlo su sua esplicita richiesta, siamo rimasti ad attenderlo per oltre un’ora.
Quando si è presentato in palese ritardo, anziché scusarsi per il gesto scortese e irrispettoso ha esordito con:
“Ero tentato di rimandarvi a casa perché non avevo voglia di vedervi oggi, ma sono generoso e, pur malvolentieri, mi sono presentato all’appuntamento”.
Man mano che la conversazione progrediva, la sua arroganza cresceva d’intensità, in modo direttamente proporzionale al ruolo ricoperto.
Fino al punto di arrivare a non avere più nemmeno la decenza di celare le proprie minacce - sfidandoci anzi a controbattere - per sottolineare la posizione di forza che ricopriva in quel momento.
Trenta minuti più tardi siamo stati accompagnati alla porta (nemmeno da lui) senza troppe cerimonie.
Indagando un po’ sulla sua carriera lavorativa ho scoperto che questa persona era entrata in quell’azienda come magazziniere per poi raggiungere l’apice in poco tempo.
Fin qui non ci sarebbe nulla di male se avesse dimostrato apertamente le sue competenze o, quantomeno, un minimo di umiltà nell’imparare un nuovo mestiere.
Invece, per nessuno era chiaro come fosse cresciuto così rapidamente (o, forse, lo sapevano sin troppo bene, ma hanno evitato di esporsi). L’unica cosa certa era che tale sviluppo fosse stato fortemente voluto dal fondatore in persona.
La cosa più assurda?
Per quanto le persone che gestiva si sentissero umiliate e mortificate da lui (i suoi atteggiamenti tracotanti non erano riservati solo ai fornitori, ma anche a tutto il suo staff), nessuno reagiva. Tutti temevano di finire nel suo mirino: era considerato un vero maestro nelle vendette plateali.

Promozioni misteriose: quando il merito non c'entra nulla

In questa storia tutto sembra sbagliato o fuori posto, non è vero?
Eppure, questo tipo di esperienza si può ravvisare in molte più realtà aziendali di quante ci si possa aspettare.
Ad ogni buon conto, che la scelta dell’avanzamento di carriera sia avvenuta
per costrizione (articolo sull'integrità);
per il principio di Peter, secondo cui le persone vengono promosse sino al raggiungimento del loro livello di massima incompetenza (vedi approfondimento sul tema);
per il principio di Dilbert — la teoria satirica, elaborata dal fumettista Scott Adams, secondo cui “le aziende tendono a promuovere le persone meno competenti nei ruoli in cui possono causare meno danni: la dirigenza”;
oppure per un abbaglio dovuto all’effetto Dunning-Kruger — quel meccanismo per cui più una persona è incompetente in un ambito, più tende a sopravvalutare le proprie capacità e a sottovalutare quelle altrui, mostrando un’eccessiva sicurezza nonostante l’evidente carenza di competenze (ma questo argomento merita una trattazione a parte)…
... il risultato non cambia: di frequente, ci si ritrova a dover fare i conti con ruoli di responsabilità occupati da chi, in realtà, non ne ha né le competenze né la lucidità e nemmeno l’intelligenza emotiva necessarie.
La costante che accomuna tutti questi casi?

Il lato oscuro della promozione: demotivazione e silenzi strategici

La crescita attraverso il solo mezzo della promozione. Sempre e solo la promozione.
Siamo così abituati a ritenere che questa sia l’unica via percorribile, da non soffermarci ad analizzare le conseguenze o le implicazioni che possono scaturire da questa decisione.
In molti casi, infatti, questa soluzione rischia di trasformarsi in una vera e propria trappola mortale: non tutti per esempio, desiderano guidare un team o ne sono in grado; non tutti si sentono pronti a prendere decisioni strategiche o hanno acquisito gli strumenti necessari per farlo; non tutti hanno la capacità di gestire le risorse umane o sono portati a farlo.
Per cui, da un lato ci si può ritrovare con persone incastrate in un ruolo non desiderato o che, al contrario, occupano una posizione che non dovrebbe appartenergli, senza nemmeno aver sostenuto un vero e proprio banco di prova; dall’altro, invece, s’innesca un meccanismo di demotivazione generalizzata dove i veri talenti (quelli che non hanno bisogno di mettersi in mostra), si sentono defraudati della possibilità di essere valorizzati e apprezzati e, nel peggiore dei casi, se ne vanno; dove chi rimane, trovandosi a dover fronteggiare un manager non all’altezza, si trincera in una muta rassegnazione, sviluppando una serie di strategie di autoconservazione – tutte disfunzionali - per sopravvivere (chi si astiene dal prendere qualsiasi posizione o proporre iniziative per non urtare il capo; chi adotta un basso profilo per non finire nel mirino; chi emula i comportamenti del capo e/o lo adula continuamente per entrare nelle sue grazie).
Quando un'organizzazione tollera — o peggio, incentiva — questi meccanismi, sta scegliendo di proteggere le gerarchie a scapito del valore reale. Ma allora, che alternativa abbiamo?

Serve una rivoluzione: dare un nuovo significato al termine “promozione” e avere alternative concrete

Prima di tutto, dobbiamo ridefinire il concetto stesso di promozione: non è - e non dovrebbe esserlo - un premio automatico da elargire con troppa facilità, né, tantomeno, un premio fedeltà (Spoiler alert: molte persone sono fedeli solo a se stesse e, se capita l’occasione giusta, ti lasciano per qualche spicciolo in più senza nemmeno voltarsi indietro. Succede ogni giorno).
È, invece, un riconoscimento consapevole - avendo dato a tutti la possibilità di emergere - riservato a chi si è distinto per attitudini, per competenze e ha avuto un impatto concreto nell’organizzazione aziendale. Per chi, insomma, ha davvero le carte in regola per occupare una posizione di rilievo e contribuire alla crescita collettiva.
Per il resto, esistono dei validi modelli alternativi che permettono a un’organizzazione di valorizzare e far emergere i propri dipendenti, testandone, allo stesso tempo, le capacità. Ne cito alcuni:
  • incentivare un sistema premiante, attraverso la definizione di Key Performance Indicator (KPI) oggettivi e raggiungibili, con step intermedi per monitorare i progressi;
  • investire in un sistema di riconoscimento basato sulla formazione continua, in cui l’avanzamento avviene dopo la verifica dell’acquisizione di competenze specifiche;
  • offrire la possibilità di sperimentare un ruolo di responsabilità a tempo limitato, per testare attitudini, capacità o semplicemente aumentare la consapevolezza del ruolo stesso;
  • affidare a un team (o a un singolo) missioni o progetti sfidanti ma sostenibili, per capire — in modo meritocratico — chi fa davvero la differenza;
  • utilizzare sistemi di reputazione interna, anonimi e non basati solo sul feedback del superiore (che potrebbe essere parziale), ma anche da parte di chi ha collaborato concretamente con la persona, per un tempo congruo.
Se sei arrivato fin qui, due sono le possibilità:

  • Hai letto con interesse e stai ripensando al tuo sistema di promozioni aziendali.
  • Stai cercando conferme per giustificare l’ennesimo salto di carriera del tuo collega "insospettabilmente" favorito.
La verità è che promuovere a caso è facile.
Costruire un sistema equo, trasparente e fondato sulla reale competenza, no.
Ma se vuoi davvero far crescere le persone (e non solo i titoli), la seconda strada è l’unica che non porta dritta al muro.
Le promozioni lasciamole al marketing. Le evoluzioni, invece, iniziamo a predisporle sul serio.
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Autrice
Elena Vecchiolini

Chi sono (in breve)

Mi occupo di consulenza aziendale con una spiccata passione per le persone, la gestione aziendale e la digitalizzazione.
Scrivo articoli per Kaizendo mescolando esperienza, curiosità e una sana dose di ironia. I miei temi preferiti?
Li conoscete già: HR, soft skill, strategie organizzative e tutto ciò che aiuta logica e creatività a convivere nelle scelte aziendali.
Credo nel potere delle domande (ne faccio molte), nell'istinto supportato dalla logica e nello sperimentare soluzioni che non sembrano soluzioni… finché non funzionano.
Motto personale? Non esiste un piano ben congeniato: devi saper seguire la corrente per capire come arrivare al mare.

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