
Lettera dal silenzio
Il segno della leadership. Meno.
Caro Responsabile,
Ti ricordi il mio entusiasmo nei primi mesi?
Ricordi quando restavo oltre l’orario senza che me lo chiedessi, quando proponevo idee, cercavo soluzioni, chiedevo feedback?
Mi sono spento.
Piano piano.
Non per stanchezza, ma per delusione.
Per il modo in cui facevi finta di ascoltare, quando invece avevi già deciso. Per ogni volta in cui il tuo sarcasmo ridicolizzava chi parlava con troppa convinzione. Per i tuoi “vediamo”, che erano solo no camuffati. Per quei momenti in cui avresti potuto difenderci… e hai scelto il silenzio.
Ricordo ancora quel venerdì: avevamo appena consegnato un progetto importante, lavorando fino a tardi. Nessun “bravi”, nessun riconoscimento. Solo: “Era il minimo”.
E il lunedì successivo, una riunione per elencare i punti deboli.
Con te, gli errori erano colpe.
I dubbi, segni di fragilità.
Le proposte, fastidi.
Così ho imparato a stare zitto.
Come Silvia, che non parla più in riunione.
Come Marco, che non ha mai più portato un’idea.
Come Marta, che ha passato la sua ultima settimana con lo sguardo basso.
Hai mai pensato a quanti ti hanno lasciato, pur restando?
E a quanti se ne sono andati davvero, in silenzio, solo per non dover spiegare?
Non era una questione di stipendio. Né di mansioni.
Era il sentirsi ogni giorno più piccoli.
Sei convinto di essere competente. Forse lo sei.
Ma di certo non sai custodire le persone.
Io me ne sono andato per salvare qualcosa che non volevo perdere: me stesso.
Spero che avrai il coraggio di leggere questa lettera per quello che è:
una possibilità di vedere ciò che non hai mai voluto guardare.
Ti ricordi il mio entusiasmo nei primi mesi?
Ricordi quando restavo oltre l’orario senza che me lo chiedessi, quando proponevo idee, cercavo soluzioni, chiedevo feedback?
Mi sono spento.
Piano piano.
Non per stanchezza, ma per delusione.
Per il modo in cui facevi finta di ascoltare, quando invece avevi già deciso. Per ogni volta in cui il tuo sarcasmo ridicolizzava chi parlava con troppa convinzione. Per i tuoi “vediamo”, che erano solo no camuffati. Per quei momenti in cui avresti potuto difenderci… e hai scelto il silenzio.
Ricordo ancora quel venerdì: avevamo appena consegnato un progetto importante, lavorando fino a tardi. Nessun “bravi”, nessun riconoscimento. Solo: “Era il minimo”. E il lunedì successivo, una riunione per elencare i punti deboli.
Con te, gli errori erano colpe.
I dubbi, segni di fragilità.
Le proposte, fastidi.
Così ho imparato a stare zitto.
Come Silvia, che non parla più in riunione.
Come Marco, che non ha mai più portato un’idea.
Come Marta, che ha passato la sua ultima settimana con lo sguardo basso.
Hai mai pensato a quanti ti hanno lasciato, pur restando?
E a quanti se ne sono andati davvero, in silenzio, solo per non dover spiegare?
Non era una questione di stipendio. Né di mansioni.
Era il sentirsi ogni giorno più piccoli.
Sei convinto di essere competente. Forse lo sei.
Ma di certo non sai custodire le persone.
Io me ne sono andato per salvare qualcosa che non volevo perdere: me stesso.
Spero che avrai il coraggio di leggere questa lettera per quello che è:
una possibilità di vedere ciò che non hai mai voluto guardare.
I fatti: costi, impatti e casi reali
Negli ultimi anni si è diffusa l’idea che le persone lascino i posti di lavoro per cercare stipendi più alti, incarichi più interessanti o benefit migliori. Ma la realtà che emerge dai dati è ben diversa: le persone non abbandonano le aziende, abbandonano i loro capi.
Una ricerca Gallup già nel 2015 mostrava che il 50% dei lavoratori statunitensi ha lasciato almeno un impiego a causa del proprio manager diretto. Non un ambiente tossico in generale, non una crisi di settore: un volto preciso, una gestione inadeguata, un capo irresponsabile. E questo dato è solo la punta dell’iceberg.
Nel report 2023 “State of the Global Workplace”, Gallup aggiorna la fotografia del coinvolgimento sul lavoro: mentre il 5% dei dipendenti italiani si definisce “coinvolto”, il 46% è addirittura stressato.
Nel report 2023 “State of the Global Workplace”, Gallup aggiorna la fotografia del coinvolgimento sul lavoro: mentre il 5% dei dipendenti italiani si definisce “coinvolto”, il 46% è addirittura stressato.
Non si tratta solo di malcontento silenzioso, ma di una vera e propria erosione della motivazione, che può portare al fenomeno oggi noto come quiet quitting — l’abbandono interiore del proprio lavoro pur restando formalmente in servizio.
Le conseguenze non si limitano al morale. Il Chartered Institute of Personnel and Development (CIPD, UK) ha stimato in una ricerca del 2023 che se un manager capace ha un impatto del 14% sul malessere psicologico dei sottoposti (che è già una notizia tremenda), uno inadeguato lo porta al 50%. In altre parole, un capo tossico non solo blocca il potenziale del team, ma genera costi diretti e indiretti altissimi per l’organizzazione, in termini di inefficienza, turnover, tensione interna, reputazione.
Teorie? Ci sono casi aziendali ben documentati che mostrano come una leadership sbagliata possa portare a veri disastri organizzativi.
Nel 2017, Uber è finita al centro di uno scandalo mediatico e legale dopo la pubblicazione del blog di Susan Fowler, ingegnera che denunciò una cultura interna fatta di favoritismi, sessismo e aggressività manageriale. Il caso portò all’uscita del CEO Travis Kalanick e a un intervento profondo sulla governance e sui processi interni. Fu un campanello d’allarme per tutta la Silicon Valley.
Un paio d’anni dopo, Away, promettente startup di valigie “di design”, è diventata un caso di studio sulla cultura aziendale disfunzionale. La CEO Steph Korey venne accusata di utilizzare Slack per rimproveri pubblici, promuovendo un clima di iper-performance e ansia costante. L’indagine pubblicata da The Verge nel 2019 costrinse Korey a dimettersi, e avviò un profondo ripensamento interno.
Sempre nel 2019, WeWork, sotto la guida di Adam Neumann, affrontò una crisi senza precedenti dopo una gestione verticistica e opaca che ignorava i segnali d’allarme interni. L’IPO dell’azienda crollò, e con essa miliardi di valutazione evaporarono in pochi mesi. Anche in quel caso, la retorica della leadership visionaria aveva coperto l’incapacità di costruire un’organizzazione sana e sostenibile.
Oltre le storie da prima pagina, però, ci sono centinaia di migliaia di aziende dove tutto questo avviene in silenzio. Non c’è uno scandalo, nessuna lettera pubblica, nessun articolo. Solo dipendenti che smettono di parlare, proporre, osare. Persone che si spengono gradualmente, oppure se ne vanno senza rumore, per dignità o stanchezza. E aziende che, senza accorgersene, perdono talento, cultura, futuro.
In accademia si insegna che il costo di un responsabile dovrebbe essere ampiamente compensato dal valore che genera nel team. Ma se invece il capo diventa il centro del problema? Se non è capace di far crescere, di proteggere, di creare fiducia? Allora non solo è inadatto: è pericoloso.
Il punto è che la leadership non si misura dal titolo o dai risultati di breve periodo, ma dall’impatto che ha sulle persone affidate alla sua guida. Come ricorda Simon Sinek:
“Leadership is not about being in charge. It’s about taking care of those in your charge.”
Ed è qui che ogni azienda dovrebbe cominciare a guardare, se vuole davvero crescere.

Autore
Enrico Parolin
Chi sono (in breve)
Mi occupo di consulenza strategica con un focus su digital transformation, organizzazione del lavoro e marketing.
In Kaizendo porto metodo, struttura e una certa ossessione per i dati che parlano (e per quelli che non parlano, ma dovrebbero).
Scrivo e progetto strumenti concreti per aiutare le aziende a prendere decisioni più consapevoli, ridurre gli sprechi informativi e trasformare la complessità in qualcosa di semplice, utile e operativo.
Credo nei modelli che funzionano davvero, nella ristrutturazione creativa dei processi e nell’efficacia delle soluzioni silenziose.
Motto personale? La chiarezza è rivoluzionaria.