
Elizabeth, la Virgin Queen
Quando si parla di passaggio generazionale, la mente corre subito a immagini piuttosto lineari: il fondatore dell’azienda che, con un sorriso (più o meno convinto), consegna le chiavi del regno al figlio o alla figlia predestinata. Un momento quasi solenne, magari accompagnato da un brindisi aziendale e dal classico “adesso tocca a te”.
Ma chi ha vissuto, da dentro o da fuori, una vera transizione generazionale, sa che è tutto fuorché un atto formale. È una maratona psicologica, una trattativa diplomatica continua, a volte perfino una guerra fredda fatta di silenzi, deleghe rimandate e sguardi pieni di significato.
Se poi guardiamo indietro nella storia, scopriamo che alcune “transizioni” sono talmente lunghe, complesse e strategiche che nemmeno danno l’idea di fasi aziendali, ma di vere e proprie epopee. E una delle più affascinanti, per analogie e lezioni ancora attuali, è quella dell’Inghilterra da Enrico VIII a sua figlia, Elisabetta I.
Passaggio generazionale in salsa Tudor
Ora, Enrico VIII non era certo famoso per la pazienza. Aveva un solo pensiero fisso: lasciare un erede maschio. Un’ossessione vera e propria, che lo portò a sposarsi sei volte, a divorziare dalla Chiesa cattolica, a fondare una religione nazionale e a rivoluzionare mezzo assetto istituzionale inglese.
Tutto per assicurarsi una cosa: che l’Inghilterra, un domani, non finisse “in dote” a qualche marito straniero di sua figlia.
In sostanza, Enrico guardava al futuro del suo regno come un imprenditore geloso della propria azienda: nessuna partnership con poteri esterni, nessun rischio di acquisizione ostile via matrimonio. Solo controllo totale.
Eppure, nonostante le sue manovre titaniche, alla fine toccò proprio a una donna, sua figlia Elisabetta, prendere in mano la corona. Dopo un fratello (Edoardo VI) morto giovanissimo e una sorellastra (Maria la Sanguinaria) fin troppo accesa nella fede e nel temperamento, fu lei a trovarsi davanti a un regno incerto, circondato da nemici, spaccato tra riformisti e nostalgici papalini, e con l’ombra ingombrante di un padre che aveva riscritto le regole senza però lasciarle il manuale d’uso.
La nascita di un brand
Ecco, in uno scenario del genere, la maggior parte dei “figli del capo” avrebbe o gettato la spugna o cercato di imitare chi c’era prima. Elisabetta invece fece una cosa totalmente diversa: costruì se stessa come se fosse un brand.
Non cercò di essere una copia del padre, né un compromesso tra le fazioni in lotta. Decise di essere qualcosa di nuovo. Un simbolo. Un’immagine. Un’idea.
E per farlo, adottò una strategia geniale: si dichiarò vergine, non in senso privato ma politico. Diede un colpo di spugna a qualsiasi prospettiva matrimoniale, tagliando di netto i tentativi di alleanze esterne, e si trasformò in una sorta di icona morale e istituzionale. Una figura sopra le parti, invulnerabile al ricatto amoroso e inaccessibile al nepotismo.
Questa mossa, che a molti sembrò solo una trovata di immagine, in realtà fu una masterclass di leadership e negoziazione. Elisabetta riuscì a mantenere il controllo, a costruirsi credibilità presso il popolo, a tenere a bada i cortigiani ambiziosi e a trattare con le potenze straniere con una freddezza da manuale.
E poi non dimentichiamolo: era una donna sola in un mondo di uomini armati, e riuscì a non farsi schiacciare. Mai.
Nel frattempo, senza alzare troppo la voce ma con una lucidità impressionante, rafforzò la marina, investì nella cultura, promosse l’esplorazione, vinse la sfida con la Spagna e pose le basi per un impero. Tutto questo mentre costruiva un’immagine pubblica talmente forte da diventare leggenda.
E per farlo, adottò una strategia geniale: si dichiarò vergine, non in senso privato ma politico. Diede un colpo di spugna a qualsiasi prospettiva matrimoniale, tagliando di netto i tentativi di alleanze esterne, e si trasformò in una sorta di icona morale e istituzionale. Una figura sopra le parti, invulnerabile al ricatto amoroso e inaccessibile al nepotismo.
Questa mossa, che a molti sembrò solo una trovata di immagine, in realtà fu una masterclass di leadership e negoziazione. Elisabetta riuscì a mantenere il controllo, a costruirsi credibilità presso il popolo, a tenere a bada i cortigiani ambiziosi e a trattare con le potenze straniere con una freddezza da manuale.
E poi non dimentichiamolo: era una donna sola in un mondo di uomini armati, e riuscì a non farsi schiacciare. Mai.
Nel frattempo, senza alzare troppo la voce ma con una lucidità impressionante, rafforzò la marina, investì nella cultura, promosse l’esplorazione, vinse la sfida con la Spagna e pose le basi per un impero. Tutto questo mentre costruiva un’immagine pubblica talmente forte da diventare leggenda.
Quanto impatta la leadership?
Il suo regno non fu solo un successo momentaneo: fu la nascita di una narrazione. Quella di un’Inghilterra indipendente, solida, moderna, protagonista. E non è un caso che proprio da lì si sia generata, nel tempo, una monarchia che si è evoluta in senso costituzionale, un sistema commerciale espanso ovunque, e perfino una lingua diventata ponte globale.
Non fu magia. Fu coerenza tra visione, valori e condotta. E se torniamo al mondo aziendale, a quel famoso “passaggio generazionale” che ci sembrava così semplice all’inizio, viene da pensare: quante volte, oggi, chi prende il timone si preoccupa troppo di accontentare tutti, o di sembrare degno, o di copiare il modello precedente?
Elisabetta ci insegna che la vera svolta avviene quando si smette di cercare l’approvazione e si comincia a costruire un’identità solida, riconoscibile, non negoziabile.
Una nuova leadership non si eredita: si costruisce, passo dopo passo, con visione, coraggio e una buona dose di presenza scenica. Se ben gestita, può riscrivere la traiettoria non solo di un’azienda, ma perfino di una nazione intera.
Altrimenti, beh… si rischia di passare alla storia non come chi ha lasciato il segno, ma come una comparsa — magari ricordata solo per aver dato il nome “Bloody Mary" ad un cocktail.

Autore
Enrico Parolin
Chi sono (in breve)
Mi occupo di consulenza strategica con un focus su digital transformation, organizzazione del lavoro e marketing.
In Kaizendo porto metodo, struttura e una certa ossessione per i dati che parlano (e per quelli che non parlano, ma dovrebbero).
Scrivo e progetto strumenti concreti per aiutare le aziende a prendere decisioni più consapevoli, ridurre gli sprechi informativi e trasformare la complessità in qualcosa di semplice, utile e operativo.
Credo nei modelli che funzionano davvero, nella ristrutturazione creativa dei processi e nell’efficacia delle soluzioni silenziose.
Motto personale? La chiarezza è rivoluzionaria.