
L'uomo che viveva nel futuro
(ma inciampava nel presente)
Storia di Michelangelo Rovere, un imprenditore italiano dell’arredo che prevedeva il domani…
ma veniva travolto dall’oggi.
Mentre l’Italia del 2003 stava ancora assorbendo l’impatto dell’euro e il mondo sembrava un mercato in espansione, il dottor Rovere aveva pianificato un futuro limpido e geometrico, come un salotto minimalista, in cui ogni oggetto è al posto giusto.
La sua azienda familiare aveva superato il passaggio dalla lira alla nuova valuta con sorprendente disinvoltura, nonostante l’inflazione strisciante e invisibile corrodesse, con inesorabile lentezza, i margini: un po’ come la polvere che si deposita sui mobili in esposizione, senza che nessuno la noti.
Lui era certo che, per poter cogliere nuove opportunità, sarebbe bastato guardare lontano: nuovi mercati, nuovi rivenditori esteri, nuove fiere. Non immaginava però che, di lì a poco, la vera rivoluzione non sarebbe arrivata da così distante: un gigante gialloblu, proprio in quegli anni, stava già addestrando una generazione di consumatori a pensare che il design valesse meno di una cena fuori e che il mobilio fosse un qualcosa da cambiare spesso, non da tramandare.
Cinque anni più tardi, mentre la crisi di Lehman Brothers faceva tremare anche i tavoli in legno massiccio, il nostro imprenditore aveva provato a reinventare la sua visione.
Aveva deciso che il futuro fosse la globalizzazione spinta: produrre in Cina per vendere al mondo. D’altronde, tutti lo facevano e i conti, sulla carta, erano perfetti.
Poi la realtà l’aveva travolto come un’onda di tsunami: il turbo-capitalismo cinese, con velocità e volumi che nessuna azienda italiana poteva nemmeno immaginare, lo aveva investito senza neanche guardarlo.
Mentre lui cercava di capire come adattare le sue collezioni allo stile “pane e design” dell’Occidente, dall’altra parte del mondo comparivano copie dei suoi prodotti prima ancora che lui avesse finito di fotografare i prototipi. Copie certo non perfette, ma per chi sa di cosa stiamo parlando, questo fu il primo forte segnale del nomadismo industriale.
Intanto Ikea, con la calma glaciale dei predatori che non si affrettano mai, continuava a mordere e rimordere il mercato popolare, erodendo spazi, margini, distributori, perfino l’immaginario collettivo.
Arrivò il 2011: convinto di aver imparato la lezione, il nostro imprenditore aveva deciso di raffinare la vision. Niente più delocalizzazione selvaggia, ma una rete di partnership internazionali; una strategia “adattiva”, come la chiamava lui nelle riunioni, una sorta di compromesso tra tradizione italiana e logiche globali.
Aveva appena trovato un equilibrio quando, come un fulmine che squarcia un cielo già instabile, arrivarono lo spread, le tensioni tra leader europei, un governo che cadeva e un altro che non si capiva se sarebbe partito davvero.
In poche settimane, le banche cambiarono tono, i clienti differirono gli ordini e i distributori congelarono gli investimenti. Le visioni a lungo termine evaporarono come acqua sul radiatore.
Lunghi anni di sforzi per riprendere fiato e posizione. Fino al 2019, quando la globalizzazione che aveva inseguito per vent’anni si rivelò fragile: container fermi, fiere chiuse, fornitori bloccati, interi mercati spariti. L’offshore, il suo punto d’appoggio per rimanere competitivo, era semplicemente morto in un istante, vittima del Covid.
Per mesi rimase nel capannone, tra il silenzio surreale dei macchinari spenti. Si rese conto che tutte quelle volte in cui aveva guardato avanti di cinque anni, in realtà stava solo camminando sul filo del rasoio. Nessuna sorpresa, purtroppo, quando, un paio di anni dopo, la guerra tornò ai confini dell’Europa e il quadro geopolitico iniziò a spaccarsi: lì comprese definitivamente che nessun piano strategico è inalterabile e non può sopravvivere incolume col mutare degli eventi.
Aveva inseguito gli USA come faro dei mercati globali… ed ecco che l’asse occidentale iniziava a tremare; aveva creduto nella Cina come motore industriale eterno… ed ecco che i costi salivano, le tensioni aumentavano, le catene di fornitura diventavano un terno al lotto.
Lui, maestro nella costruzione di mobili solidi, aveva realizzato piani strategici fragili.
Una robusta vision nel lungo periodo, ma deboli passi strada facendo.
C’era un’unica costante nel bilancio degli ultimi vent’anni: ogni volta che aveva fatto un piano quinquennale perfetto, il mondo aveva cambiato le regole del gioco in pochi mesi.
Assorto in questi pensieri, guardò un catalogo di Ikea lasciato su un tavolo da un cliente.
Per la prima volta non provò rabbia, ma lucidità: Ikea non aveva vinto con una vision perfetta, ma rimanendo incollata, perdonate il gioco di parole, al presente delle persone.
Il vantaggio competitivo nasce dalla capacità di osservare, reagire e adattarsi ogni giorno, non di indovinare l’orizzonte ideale.
Strategia reattiva
Ci sono tanti imprenditori che pensano di prevedere il futuro, con visioni ad ampio respiro e piani infallibili. Ma il mondo, testardo, si muove di suo.
Anche i più brillanti lo hanno scoperto: Bezos immaginava un’evoluzione dell’e-commerce lineare ma oggi si ritrova player mondiale nell’ICT con AWS. Musk prometteva rivoluzioni fantascientifiche ma inciampa tra politica e batterie per auto. Per Schultz, Starbucks sarebbe cresciuta ovunque, per poi rimettere mano al modello a causa di crisi finanziarie e di pandemie.
Poi ci sono stati anche casi di FantaVision: Uber, SoftBank, Microsoft, BlackBerry, Nokia. Idee potentissime, ma incapaci di restare ancorate al presente.
Il punto è che il vantaggio competitivo non nasce dall’indovinare il futuro perfetto, ma dall’agire nel presente imperfetto: osservare, reagire, correggere ma mai fossilizzarsi sulla propria idea iniziale.
Rendiamoci conto che il mercato si muove più velocemente delle nostre convinzioni, le tecnologie evolvono mentre ancora stiamo cercando di capirle e ogni settore - dall’arredo alla finanza, dalla logistica al turismo - viene ridisegnato quotidianamente da AI, automazione, demografia e nuovi modelli di consumo.
Non serve a nulla prevedere cosa accadrà tra cinque anni, ma serve essere pronti a imparare qualcosa già domani mattina.
Allenatevi all’adattamento, aggiornatevi, sperimentate, ascoltate il mercato senza difendere per forza le vostre scelte trascorse. Le mosse vincenti del vostro passato raramente lo sono anche per le sfide future.
La capacità di cambiare mentre il mondo cambia è la sola strategia che non passa mai di moda.

Autore
Enrico Parolin
Chi sono (in breve)
Mi occupo di consulenza strategica con un focus su digital transformation, organizzazione del lavoro e marketing.
In Kaizendo porto metodo, struttura e una certa ossessione per i dati che parlano (e per quelli che non parlano, ma dovrebbero).
Scrivo e progetto strumenti concreti per aiutare le aziende a prendere decisioni più consapevoli, ridurre gli sprechi informativi e trasformare la complessità in qualcosa di semplice, utile e operativo.
Credo nei modelli che funzionano davvero, nella ristrutturazione creativa dei processi e nell’efficacia delle soluzioni silenziose.
Motto personale? La chiarezza è rivoluzionaria.